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Il racconto

“Mal di Sicilia”, la nuova sindrome che unisce i leader del centrodestra .«Meglio tenerci lontani dai guai»

Gli scandali giudiziari, le guerre fra bande locali e i sondaggi: addio all’Isola del Tesoro. A prescindere da Schifani

Mario Barresi

05 Dicembre 2025, 06:51

“Mal di Sicilia”, la nuova sindrome che unisce i leader del centrodestra .«Meglio tenerci lontani dai guai»

I leader del centro destra nazionale in piazza a Catania, nel giugno 2023, col futuro sindaco Trantino

Non è ancora una malattia incurabile. Ma è già una sindrome galoppante. Si chiama “Mal di Sicilia” e affligge, con diversi gradi di reversibilità, i leader nazionali del centrodestra. Atterriti dalle inchieste giudiziarie (passate, presenti e future), irritati dalle guerre fra bande fra e dentro i partiti. E preoccupati da qualche sondaggio non rassicurante finito sui tavoli delle stanze romane dei bottoni. Così l’Isola - da sempre granaio di voti, oltre che bancomat di seggi sicuri ai paracadutati delle segreterie nazionali - per Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia è diventata un problema.

Un grosso problema.

E dire che, fino a poco tempo fa, Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani sarebbero stati disposti a contendersi, con le unghie e con i denti, l’Isola del Tesoro. Con tutto e il contrario di tutto - tabù, luoghi comuni e ritornelli - dell’«Ohio d’Italia che decide le Politiche» o del pluricitato «laboratorio politico» dove si sperimentano formule e si anticipano tendenze.

Oggi non è più così.

La Sicilia, per il centrodestra nazionale, s’è trasformata in una specie di gatto nero. Tutti i big ostentano disincanto, ma nessuno vorrebbe che attraversasse la propria strada.

«Non ne voglio più sentire parlare», è l’iraconda conclusione a cui - raccontano i suoi - sarebbe addirittura arrivata Meloni. Infuriata per i danni d’immagine dell’arresto di Totò Cuffaro a carico della coalizione. Con l’aggravante del «noi ve l’avevamo detto» sbandierata agli alleati, non soltanto siciliani, già subito dopo l’esplosione dell’inchiesta a Palermo. «Nella campagna del referendum sulla Giustizia - ragionano ai piani alti di Via della Scrofa - le vicende siciliane rischiano di diventare una pacchia per i giudici». Ma anche il partito della premier, come qualcuno le ha fatto garbatamente notare, è invischiato nel verminaio siculo. All’orizzonte gli imminenti processi a pezzi grossi di FdI, come il presidente dell’Ars, Gaetano Galvagno, e l’assessora Elvira Amata. La loro eventuale sospensione dal partito? «È legata al destino della ministra Santanché: se salta lei, saltano tutti». Eppure l’idiosincrasia maturata da Giorgia per la Sicilia (una, soltanto una, delle ragioni del recente intiepidimento dei rapporti con Ignazio La Russa) dipende anche da dinamiche interne. Le stesse che l’hanno persuasa a commissariare il partito siciliano, facendo saltare qualche testa; soprattutto bionda col ciuffo. La cura di Luca Sbardella è servita finora a ridurre il tasso d’anarchia, ma la guerra tra le tribù meloniane di Sicilia, combattuta a colpi di dossieraggi, resta più che latente.

Renato Schifani e Totò Cuffaro

E dunque la leader, pur di non piantare la sua bandierina in un terreno così melmosa, sarebbe ben disposta a rinunciare a qualsiasi rivendicazione sulle prossime elezioni regionali.

A meno che non vada in porto la raffinata moral suasion che alcuni le sussurrano da un po’ di settimane: «Giorgia, se il problema in Sicilia è la questione morale, noi possiamo mettere in campo un campione di moralità». E chi se non il ministro Nello Musumeci. «Ho attraversato le paludi senza mai prender la malaria», ama ripetere l’ex governatore col dente ancora avvelenato per il mancato bis. Quelli del suo “pizzetto magico” esplicitano il sottinteso: «Non come chi c’è adesso». Il CollonNello sarà la buona vecchia medicina contro il malcostume alla Regione? Ancora è presto per dirlo, ma - nonostante chi, fra i suoi nemici, sostiene che «con lui non è successo niente semplicemente perché non ha governato» - è una gran bella suggestione. Come quella di una candidata donna: la deputata palermitana Carolina Varchi, sempre a debita distanza dai guai giudiziari altrui, di recente notata a Montecitorio nell’organizzazione di eventi sulla legalità, con magistrati e guru antimafia nel parterre.

Meloni a Catania per la campagna elettorale per le politiche del 25 settembre 2022. Dietro Renato Schifani e Nello Musumeci

Più realistica, invece, la posizione della Lega.

L’interpretazione autentica della recente boutade di Salvini («Noi in Sicilia avremo qualche suggerimento da dare») è più che altro legata a una pressione su FdI, che rivendica la Lombardia, anziché un reale interessamento al di sotto dello Stretto, per ora senza Ponte. Nonostante i retroscena sull’aperitivo in un locale romano di piazza della Pietra, poco più di una settimana fa, in cui Claudio Durigon, braccio destro del Capitano, avrebbe espresso il «sogno del primo governatore leghista al Sud», facendo pure il nome della senatrice catanese Valeria Sudano. Il partito siciliano smentisce con forza, ma tace sull’imbarazzo che il caso Cuffaro ha creato a Via Bellerio. La quasi-alleanza con la Dc, benedetta dallo stesso Durigon alla Festa dell’Amicizia di Ribera, è diventata un boomerang politico per Luca Sammartino. Salvini (che ha sempre difeso il vicepresidente della Regione, imputato in due processi) non l’avrebbe presa benissimo. Eppure, dopo i numeri impressionanti di Luca Zaia, il ministro dei Trasporti s’è arreso alla realpolitik: se la prospettiva è quella della “doppia Lega”, con la Padania che tornerebbe linea di demarcazione fra Nord e Sud, meglio inghiottire qualche rospo dai siciliani, perdonando lo scambio di baci con Cuffaro. E senza forzare su Palazzo d’Orléans: «Al momento giusto ne parleremo».

I leghisti Luca Sammartino, vicepresidente della Regione Siciliana, e Matteo Salvini

Dulcis (si fa per dire) in fundo, Renato Schifani.

Che è, allo stesso tempo, il tormentone e il convitato di pietra di tutti i discorsi, a Roma e a Palermo. Nessuno osa dirgli che non è gradita la sua ricandidatura, eppure se si votasse oggi sarebbe a dire di tutti «il candidato naturale». Qualcuno gliel’ha pure consigliato: «Renato, approva una tua finanziaria di alto profilo, sfidando i franchi tiratori del voto segreto, e poi all’inizio del nuovo anno ti dimetti per andare al voto in primavera». In sintesi: il modello Occhiuto. Ma il collega calabrese, peraltro coinvolto in prima persona in un’inchiesta giudiziaria, ha potuto permettersi lo stop&go in virtù di una forza che ha dentro il suo partito, prima che nella coalizione. Schifani, invece, deve fare i conti con il fuoco amico forzista. Grazie a un viaggio della speranza a Roma è riuscito a boicottare l’invio di un “ispettore” forzista nell’Isola. Ma non ancora a convincere Tajani a ripuntare con chiarezza su di lui. Il vicepremier, allergico ai veleni siciliani fino all’ignavia, verrà ad ascoltare tutti, soprattutto i frondisti. Per la beffarda gioia del loro capo carismatico: Giorgio Mulè, appena nominato coordinatore della campagna referendaria di Fi. Ma, pur continuando a rivendicare la coloritura azzurra su Palazzo d’Orléans, Tajani deciderà di non decidere. Aspettando il decorso degli eventi (anche giudiziari) e le mosse degli altri leader alleati. Tutti, all’uninsono, sempre più d’accordo su un’idea: la prossima volta è meglio evitare l’election day. Insomma: non più Politiche e Regionali nello stesso pacchetto, per evitare stascichi giudiziari e per sterilizzare partiti e movimenti locali. E l’effetto-trascinamento delle liste corazzate per l’Ars? «Ne possiamo anche fare a meno», sostiene un potente meloniano di stanza a Roma. Così, con elezioni politiche anticipate (magari alla primavera 2026), la linea comune sarebbe quella di trascinare la Sicilia alla scadenza naturale prevista nell’autunno successivo, «quando i giochi nazionali saranno già fatti».

E dire che ci sono pure quei sondaggi preoccupanti.

Uno, di qualche tempo fa, secondo il quale con l’attuale legge elettorale (non a caso la vogliono cambiare) il centrodestra, se ci fosse l’intero campo largo unito, non ripeterebbe l’en plein del 2022 nei collegi uninominali siciliani: sarebbero «contendibili» almeno 8 dei 12 della Camera e ben 4 su 6 del Senato. Ma, al di là dei dati di Puglia e Campagnia (dove è stato stimato un flusso di oltre il 20% delle preferenze a Decaro e Fico proveniente da elettori di centrodestra), preoccupa anche l’identikit degli astensionisti: se andassero a votare, quelli del campo progressista sarebbero quasi il doppio dei non votanti più orientati verso i partiti di maggioranza. «Un motivo in più - ragionano a Roma - per non stuzzicarli con la voglia di cambiamento che potrebbe essere alimentata da scandali e processi». Non che la concorrenza, il “camposanto” siciliano, incuta timore più di tanto. Ma, fino a contrordine, per i leader del centrodestra è meglio «lasciare la Sicilia ai siciliani». Una nuova forma di autonomia differenziata. Così, giusto per evitare altri guai.