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IL CASO

«Senza consenso non è amore, è reato»: il ddl si ferma in Senato nel giorno contro la violenza sulle donne

La Camera lo ha votato all’unanimità, ma a Palazzo Madama la maggioranza chiede “approfondimenti” e audizioni. Le opposizioni lasciano la Commissione: cosa c’è nel testo, perché si è inceppato l’iter e cosa può succedere adesso

Alfredo Zermo

25 Novembre 2025, 18:16

18:18

«Senza consenso non è amore, è reato»: il ddl si ferma in Senato nel giorno contro la violenza sulle donne

L’aula è quasi vuota. Sulle sedie della Commissione Giustizia del Senato restano i fascicoli azzurri con la scritta “Art. 609-bis”, le matite appuntite per le correzioni, i microfoni rossi ancora accesi. È il pomeriggio del 25 novembre 2025, la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Un istante prima, i senatori di opposizione si sono alzati in blocco e hanno abbandonato i lavori: contestano lo stop chiesto dalla Lega — a cui si sono accodati Fratelli d’Italia e Forza Italia — per “approfondire” la norma chiave del disegno di legge che introduce la definizione di consenso nel reato di violenza sessuale. Un testo che appena sei giorni fa, il 19 novembre, la Camera dei deputati aveva approvato all’unanimità con 227 voti favorevoli. Oggi, invece, si ferma sulla soglia di Palazzo Madama.

Cosa prevede davvero il testo: la definizione di “consenso libero e attuale”

Il cuore della riforma è semplice e, al tempo stesso, dirompente: riscrivere integralmente l’articolo 609-bis del codice penale per stabilire che, in assenza del consenso libero e attuale della persona, si configura il reato di violenza sessuale. Tre le condotte tipizzate: compiere atti sessuali su un’altra persona; far compiere atti sessuali a un’altra persona; far subire atti sessuali a un’altra persona. Restano, con lievi adattamenti, le fattispecie già note (violenza, minaccia, abuso di autorità, approfittamento di condizioni di inferiorità o particolare vulnerabilità). Le pene previste vanno da 6 a 12 anni. L’impianto è esplicitamente allineato alla Convenzione di Istanbul, che fa del consenso la pietra angolare della tutela penale.

La norma definisce il consenso come decisione “libera” — cioè priva di violenza, minaccia, inganno o pressioni — e “attuale”, cioè riferita a quel momento e a quell’atto, non desumibile in modo permanente da comportamenti precedenti o da relazioni affettive in corso. Un chiarimento che punta a evitare equivoci spesso devastanti in sede processuale: non basta che “non ci sia stato un no”; occorre che ci sia stato un , espresso in modo libero e presente. È l’asse concettuale che ha guidato la convergenza parlamentare in prima lettura.

Un voto storico alla Camera, poi la frenata

Il 19 novembre 2025 la Camera ha approvato il testo con unanimità piena: 227 sì, nessun contrario. È stato l’esito di un lavoro condiviso delle relatrici Carolina Varchi (FdI) e Michela Di Biase (Partito Democratico), che hanno cucito l’emendamento unitario dopo un confronto politico tenace cui hanno contribuito sia la presidente del Consiglio Giorgia Meloni sia la segretaria del Pd Elly Schlein. Il provvedimento è quindi passato al Senato con l’ambizione di una rapida seconda lettura, anche per un segnale simbolico nella settimana del 25 novembre.

Il corto circuito politico in Commissione Giustizia

In Commissione Giustizia a Palazzo Madama, però, la maggioranza ha cambiato passo. Su iniziativa della Lega, e con l’adesione di Fratelli d’Italia e Forza Italia, è stata chiesta una fase di “approfondimento” con un ciclo di audizioni. Una decisione che, di fatto, ha bloccato l’approdo immediato del testo in Aula. Le opposizioni — Pd, M5S, Avs, Azione — hanno lasciato la seduta in segno di protesta. La presidente della Commissione e relatrice al Senato, Giulia Bongiorno, ha assicurato che si tratterà di un percorso “mirato e breve”, con l’obiettivo di chiudere “in poche settimane”. Resta il dato politico: lo strappo è arrivato quando l’ipotesi di voto in Aula proprio il 25 novembre aveva raccolto il sostegno anche del presidente del Senato Ignazio La Russa in Conferenza dei capigruppo.

In un’intervista, Bongiorno ha spiegato che le richieste di audizione sono attese “già domani” e ha ribadito che “certamente il provvedimento andrà avanti”, respingendo l’idea di un ritardo deliberato. Ma per le opposizioni il segnale resta pesante: “un voltafaccia” che rischia di depotenziare un messaggio atteso dal Paese.

Le parole dei protagonisti

La relatrice alla Camera, Michela Di Biase, ha parlato di “inspiegabile e gravissimo voltafaccia della destra” e ha ricordato che il testo è stato votato “all’unanimità meno di una settimana fa”. Il suo ragionamento è lineare: la norma sul consenso rappresenta “un cambio di paradigma epocale” e non può diventare terreno di tattica o messaggi interni alla maggioranza. Un richiamo che ha un destinatario politico implicito: la stessa Giorgia Meloni, che — insieme a Elly Schlein — aveva favorito la convergenza sul compromesso.

Dal fronte della maggioranza, Giulia Bongiorno ribadisce la necessità di ascoltare tecnici e operatori per “blindare” il testo e ridurre le ambiguità interpretative, ma promette tempi stretti. In controluce, si legge la preoccupazione — soprattutto in casa Lega — che l’enfasi sul “solo il sì è sì” possa essere percepita come una delega eccessiva alla valutazione soggettiva, con il rischio di contenziosi. Un timore che la Commissione punta a disinnescare sul piano tecnico-giuridico.

La cornice internazionale: cosa dice la Convenzione di Istanbul

L’orientamento verso una definizione basata sul consenso non nasce nel vuoto. L’Italia ha ratificato nel 2013 la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul), in vigore a livello internazionale per il nostro Paese dal 1° agosto 2014. L’articolo 36 della Convenzione ci impegna a garantire che i rapporti sessuali senza consenso siano penalmente puniti. Il testo approvato alla Camera muove esattamente in questa direzione, chiarendo cosa si intenda per consenso “libero e attuale” e spostando il baricentro dalla violenza fisica all’assenza di autodeterminazione della persona offesa.

Anche l’Unione europea ha intensificato il quadro di tutela: nel 2025 è proseguito il lavoro di attuazione delle decisioni sull’adesione dell’UE alla Convenzione, mentre il pacchetto normativo europeo contro la violenza sulle donne ha posto un’attenzione crescente a reati come la diffusione di immagini intime senza consenso, le molestie online e la mutilazione genitale femminile. La definizione di consenso resta materia dei singoli ordinamenti, ma il trend europeo è chiaro.

Perché lo stop pesa (anche simbolicamente)

La frenata in Commissione arriva nel giorno in cui l’intero Paese è attraversato da iniziative, cortei, commemorazioni. Per la politica, l’obiettivo — oggi mancato — era associare un voto importante a una data che parla alla coscienza pubblica. La scelta di rinviare, pur con la promessa di tempi brevi, ha un costo simbolico evidente. Lo sottolineano le opposizioni e lo avvertono anche molte associazioni che, da anni, chiedono una riforma centrata sul consenso. La presidenza del Senato aveva dato disponibilità a calendarizzare il voto in Aula già oggi; lo stop della maggioranza ha ribaltato lo scenario concordato tra i capigruppo.

Cosa cambia davvero con la riforma: effetti sui processi e sulla prova

Se e quando la riforma diventerà legge, gli addetti ai lavori stimano alcuni effetti immediati:

  • Chiarezza del perimetro del reato: la mancanza di consenso diventa elemento costitutivo esplicito, riducendo l’area grigia tra “abuso” e “violenza”.
  • Maggiore centralità dell’attività istruttoria sulle circostanze del “sì”: non un automatismo, ma un’analisi attenta di contesto, comunicazione, capacità, eventuali pressioni e asimmetrie.
  • Continuità con le aggravanti e le ipotesi già previste (minori, disabilità, abuso d’autorità, violenza o minaccia), che restano nel corpo dell’art. 609-bis e nell’art. 609-ter.
  • Allineamento del lessico giuridico italiano agli standard internazionali sottoscritti dall’Italia fin dal 2013.

In concreto, per le vittime potrebbe significare un percorso probatorio meno umiliante, con minore insistenza su stereotipi — “come era vestita”, “aveva bevuto?” — e maggiore attenzione all’effettiva libertà di autodeterminazione. Per la difesa, non viene cancellato l’onere di contestare il quadro fattuale: resta decisivo ricostruire contesti, cronologie, comunicazioni, eventuali comportamenti fraintendibili, tenendo conto del principio di presunzione di innocenza. È qui che una buona tecnica normativa — e audizioni utili, se davvero “mirate e brevi” — possono rafforzare la tenuta della riforma.

Le critiche della maggioranza: timori, non ostruzionismo?

I partiti di governo negano l’ostruzionismo e parlano di prudenza. La Lega chiede di ascoltare magistrati, avvocati, forze dell’ordine, centri antiviolenza, esperti di diritto penale, per sciogliere nodi interpretativi. Il punto sensibile, spiegano, è tradurre in norma un concetto — il consenso — che è insieme giuridico e culturale, evitando contraddizioni tra disposizioni e prassi. La presidente Bongiorno — penalista con lunga esperienza — afferma che il dossier è arrivato “oggi” in Commissione e che “è fuorviante parlare di ritardi”, perché l’iter deve semplicemente svolgersi secondo prassi.

Sul fronte opposto, Pd e M5S ricordano che l’istruttoria è già stata fatta alla Camera, dove il testo è passato con voto unanime dopo una mediazione politica senza precedenti tra Giorgia Meloni e Elly Schlein. Ripartire da zero al Senato, sostengono, è un arretramento che rischia di diluire una riforma attesa e chiara nel suo impianto.

Il contesto normativo: dove si colloca la riforma nel codice penale

La riscrittura dell’art. 609-bis si accompagna a ritocchi dell’art. 609-ter (aggravanti), per allineare l’intero titolo del codice ai nuovi criteri. Non cambia la logica delle aggravanti in presenza di minori, uso di armi, gruppo o particolare vulnerabilità; cambia la porta d’ingresso del reato, che diventa la prova dell’assenza di consenso. La scelta è in linea con una giurisprudenza europea che, negli ultimi anni, ha guardato con crescente favore alle definizioni consent-based. In parallelo, il Parlamento sta accelerando su una norma ad hoc sul reato di femminicidio come fattispecie autonoma, altro cantiere che la maggioranza vorrebbe portare in Aula con ampio consenso.

Le prossime tappe al Senato: cosa aspettarsi

  • Definizione del perimetro delle audizioni richieste dalla maggioranza. La presidente Bongiorno ha parlato di un ciclo “breve e mirato”.
  • Chiusura del lavoro in Commissione Giustizia e approdo in Aula per la seconda lettura. In caso di modifiche, il testo tornerebbe alla Camera.
  • Possibile voto entro “poche settimane”, se terrà l’impegno politico. Le opposizioni spingono per un via libera rapido e senza riscritture sostanziali.

Perché le parole contano: il “consenso” come cultura giuridica

Il passaggio dal paradigma “no means no” a quello “only yes means yes” non è solo un’operazione di tecnica legislativa. È un cambio di linguaggio, che incide sulla cultura probatoria e sulla formazione degli operatori. Da anni i centri antiviolenza e gli ordini professionali chiedono linee guida uniformi, raccolta della prova più tempestiva e meno invasiva, formazione specializzata nelle procure e nelle forze dell’ordine. Una norma chiara aiuta, ma non basta: senza risorse e procedure coerenti il rischio è di affidare tutto alla sensibilità del singolo ufficio. Qui il richiamo della Convenzione di Istanbul è puntuale: prevenzione, protezione, perseguimento, politiche integrate. Non solo legge penale, ma sistema.

Il messaggio al Paese, oltre la polemica

Che il ddl si sia fermato proprio oggi è uno smacco politico, ma non necessariamente l’epilogo. Se la maggioranza terrà fede agli impegni e la Commissione licenzierà presto il testo, il Parlamento potrà chiudere in tempi ragionevoli una riforma attesa e comprensibile per i cittadini. La chiave, a questo punto, è evitare che il confronto tecnico si trasformi in logoramento. La convergenza costruita alla Camera — con l’inedita sponda tra Giorgia Meloni ed Elly Schlein — ha un valore che supera il perimetro dei partiti: sposta l’asse dalla contesa alla tutela dei diritti. Nel frattempo, le parole pesano: “Se non c’è consenso, c’è stupro”. È la frase più citata in questi giorni: sintetica, netta, capace di orientare comportamenti e sentenze. Il Parlamento ora deve decidere se farla diventare legge dello Stato o se tenere il Paese in attesa.