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L'ATTENTATO

“Dieci minuti di buio su Bondi”: la festa della luce diventa trappola. Cosa è successo davvero a Sydney e perché riguarda tutti

Una serata di Hanukkah affacciata sull’oceano, il ponte pedonale, il crepuscolo. Poi gli spari. In dieci minuti la celebrazione si trasforma in incubo. E mentre Sydney cerca risposte, emergono i primi elementi chiave: modalità, indizi su moventi, falle (o no) nell’allerta, lezioni per la sicurezza degli eventi di massa.

Alfredo Zermo

14 Dicembre 2025, 21:16

22:00

“Dieci minuti di buio su Bondi”: la festa della luce diventa trappola. Cosa è successo davvero a Sydney e perché riguarda tutti

La bambina tiene stretta la candela di cera, la custodisce con le mani a coppa per proteggere la fiamma dal vento salmastro. Sullo sfondo, il mare di Bondi Beach respira lento, come ogni sera d’estate australe. Alle 18,40-18,47 (ora locale), secondo le prime ricostruzioni, una sequenza di colpi spezza il brusio della festa: due figure vestite di scuro, su un piccolo ponte che scavalca la strada e il parcheggio vicino al parco giochi, aprono il fuoco verso la folla radunata per “Chanukah by the Sea”, l’evento organizzato da Chabad of Bondi. In circa dieci minuti, la “festa della luce” si trasforma in un caos di sirene, urla, fughe, corpi a terra, soccorritori che improvvisano triage tra le giostre.

Le autorità del Nuovo Galles del Sud parlano subito di “incidente in corso”, poi di “attacco terroristico”. Il bilancio, ancora in evoluzione nelle ore successive, è durissimo: il numero delle vittime è salito a 15, tra cui un bambino e ci sono decine di feriti secondo i primi resoconti convergenti di media e istituzioni; uno dei due aggressori viene ucciso, l’altro è ferito e in custodia. Nelle vicinanze viene individuato un presunto ordigno esplosivo improvvisato all’interno di un’auto riconducibile a uno degli assalitori: gli artificieri lo neutralizzano. La polizia rilancia un appello secco: “Evitate la zona, cercate riparo, non superate le linee di sbarramento”. È l’inizio di un’indagine che scuote non solo Sydney, ma l’intera Australia, e che rimette al centro parole pesanti: antisemitismo, radicalizzazione, protezione degli spazi pubblici.

Un attacco nel cuore di un rito comunitario

“Chanukah by the Sea” è uno di quegli appuntamenti che, negli anni, hanno trasformato Bondi in una cartolina della convivenza: famiglie, musica, bancarelle, il rito dell’accensione, l’Hanukkah che illumina la spiaggia più famosa del Paese. La prima sera di Hanukkah — dettaglio non casuale — richiama centinaia di persone, molte con bambini. A ridosso del parco giochi di Bondi Park, un ponte pedonale offre una posizione elevata che, nell’economia di un attacco, diventa tristemente “tattica”: chi spara domina la scena, la vede, la misura.

Stando a numerose testimonianze e immagini verificate dai media, gli aggressori — vestiti di nero — si muovono sul ponte e indirizzano i colpi verso il basso, in direzione del parco e della folla. Un video successivamente validato mostra una raffica di colpi e, a distanza di poco, l’arrivo dei primi agenti; in almeno un frame si riconosce un civile che si avvicina e riesce a disarmare uno dei tiratori, un gesto di coraggio definito “incredibile” dal premier del Nuovo Galles del Sud, Chris Minns. Gli investigatori parlano di circa dieci minuti di fuoco quasi continuo, un tempo sufficiente a generare panico e un tragico bilancio. La cronaca delle ambulanze racconta un mosaico di trasferimenti in più ospedali dell’area — St Vincent’s, RPA, St George, Royal North Shore, Westmead, Sydney Children’s, Prince of Wales — un dato che misura la scala dell’evento e la complessità del soccorso in uno scenario a cielo aperto.

Cosa sappiamo degli aggressori

Nelle ore immediatamente successive, la polizia del NSW conferma: i sospettati sono due; uno è stato ucciso durante lo scontro a fuoco, l’altro è in condizioni critiche ma vivo e detenuto, si chiama Khaled al-Nablusi, un cittadino libanese di origine palestinese. Dopo si scoprirà che i due sono padre e figlio. Il padre 50enne è morto, il figlio 24enne è in ospedale.

Scattano perquisizioni e sequestri. Il capo dell’ASIO, Mike Burgess, precisa che almeno uno dei due era “conosciuto” ai servizi di sicurezza, ma non considerato “minaccia immediata”; un dettaglio che riapre il dibattito — mai semplice — sul confine tra monitoraggio preventivo e tutela delle libertà civili, tra profilazione del rischio e capacità di intervento a fronte di segnali sfumati o intermittenti.

Sulle armi utilizzate, le prime descrizioni parlano di un’arma lunga tipo fucile e di un’arma a pompa; si tratta di un’informazione ancora in via di verifica forense, ma coerente con la dinamica registrata nei video e con i fori rinvenuti su auto, balaustre e arredi urbani. Resta una domanda cruciale: logistica e preparazione. Come sono arrivati sul posto? Da quanto tempo stazionavano sul ponte? Hanno agito soli o con supporto esterno? È in questo quadro che si inserisce il ritrovamento dell’IED in un veicolo afferente a uno dei due: un tassello che, se confermato dai rilievi, sposterebbe l’azione dal perimetro di “mera sparatoria” a quello di una operazione composita con elementi esplosivi.

Il movente: l’ombra lunga dell’antisemitismo

Le parole usate dai vertici istituzionali sono nette. Il primo ministro Anthony Albanese parla di “male indicibile” e definisce il gesto un attacco deliberato contro gli ebrei australiani riuniti per Hanukkah. L’evento colpito, la data, il luogo, la scelta della folla familiare: tutto converge verso un movente antisemita. Anche fonti internazionali — da BBC a Reuters, da The Guardian a ABC News — utilizzano la parola “terrorismo” accostata a “antisemitismo”. In parallelo, organizzazioni della comunità — come l’Executive Council of Australian Jewry — parlano di “bersaglio scelto”, chiedendo un salto di qualità nella protezione degli eventi ebraici e nella risposta ai discorsi d’odio.

La strage di Bondi arriva in un contesto già teso: dall’autunno 2023, con l’inasprirsi della guerra Israele–Gaza, l’Australia registra — come molte democrazie occidentali — un aumento degli episodi d’odio e delle tensioni comunitarie. I dati variano per metodo di rilevazione, ma il trend è chiaro. Il punto, però, non è statistico: è politico, sociale, culturale. La domanda che rimbalza è sempre la stessa: come difendere spazi aperti e rituali civili di fronte a minacce fluide, a volte prodotte da lupi solitari, altre da microcellule temporanee, spesso alimentate da propaganda online e disinformazione?

La risposta delle istituzioni e l’onda lunga internazionale

Il governo federale convoca subito il Consiglio di Sicurezza Nazionale; la NSW Police attiva poteri speciali nella cornice della LEPRA (la normativa locale sui poteri e responsabilità delle forze di polizia) per stabilizzare l’area, impedire emulazioni, valutare eventuali complici. Sul posto operano unità ordinarie e reparti speciali, insieme agli artificieri. La catena dei soccorsi funziona: si vedono elicotteri, decine di ambulanze, medici e infermieri che organizzano un posto medico avanzato tra aiuole e panchine, mentre i varchi isolano Queen Elizabeth Drive, il Bondi Pavilion, il parco giochi.

La reazione internazionale è immediata: condoglianze da Washington e Gerusalemme, messaggi del capo dello Stato australiano (Re Carlo III, nella sua veste costituzionale per l’Australia), voci della società civile musulmana — inclusa l’Australian National Imams Council — che condannano “senza ambiguità” l’attacco. In parallelo, sui social si accendono polemiche politiche tra Canberra e Gerusalemme sul tema del riconoscimento della statualità palestinese: un rumore di fondo che non deve confondere la priorità investigativa — stabilire responsabilità, reti, coperture — e quella di coesione interna.

Il coraggio dei civili: la storia che non si dimentica

C’è un’immagine che resta, più di altre: un civile che si avvicina al ponte, approfitta di un attimo, disarma uno dei due. Le autorità, prudenti sull’identità nelle primissime ore, confermano però il gesto e lo definiscono “determinante” per contenere la mattanza. “Un eroe”, dice Chris Minns. Nelle stragi, spesso la linea tra disperazione e salvezza è fatta di pochi secondi e di persone che decidono di andare contro senso rispetto all’istinto di fuga. Questo non toglie nulla al dovere primario delle istituzioni — prevenire, proteggere, rispondere — ma ricorda che la resilienza civile è parte integrante della sicurezza democratica.

Una cronaca in evoluzione: numeri, nomi, verifiche

Nelle prime 24 ore seguite all’attacco, i numeri oscillano: 16 vittime, 29 feriti, tra cui almeno 2 agenti e almeno 1 minore. Alcune testate riferiscono i nomi di alcune vittime, tra cui un rabbino di origine britannica; fonti israeliane parlano di cittadini israeliani tra le vittime e i feriti. È fisiologico che, in questa finestra temporale, i dati si aggiornino. La bussola è la convergenza: quando polizia, sanità e media principali iniziano ad allinearsi sui medesimi ordini di grandezza, possiamo considerare il bilancio “stabile” pur sapendo che i conteggi definitivi arriveranno solo con la convalida forense e con il completamento delle notifiche ai familiari.

Le domande aperte

Le indagini, coordinate dallo State Crime Command con supporto di AFP e ASIO, hanno almeno quattro assi di lavoro:

Profilo degli aggressori: percorso personale, eventuali precedenti, rete sociale online/offline, contatti internazionali. Il fatto che almeno uno fosse “conosciuto” ai servizi — ma non classificato come minaccia imminente — riapre la discussione sui criteri di priorità nelle liste di osservazione e sulla condivisione informativa tra agenzie.

Logistica e pianificazione: sopralluoghi preventivi? Approvvigionamento delle armi e dell’eventuale IED? Scelta dell’altitudine (il ponte) e dell’orario (prima serata, luce calante) per massimizzare l’effetto sorpresa?

Eventuale rete di supporto: chi ha fornito i mezzi? C’è un terzo uomo? Le prime ore hanno incluso la verifica di questa ipotesi, poi ridimensionata, ma l’analisi prosegue su telecamere, celle telefoniche, targhe, pagamenti.

Copycat e sicurezza degli eventi futuri: come blindare cerimonie e raduni pubblici nei prossimi giorni? Il periodo pre-natalizio a Sydney è costellato di appuntamenti: serve una strategia di mitigazione che combini visibilità delle forze dell’ordine, barriere fisiche “leggere”, percorsi di esodo comunicati in anticipo, messaggistica d’emergenza unificata su app, cartellonistica, altoparlanti.

La comunità, oltre la paura

Nella sera più buia, Sydney ha visto anche la parte migliore di sé: sconosciuti che proteggono bambini dietro i muretti; ristoratori che aprono le cucine come rifugio; volontari che portano acqua e coperte; medici fuori servizio che corrono verso i feriti. La comunità ebraica della zona orientale — storicamente radicata attorno a Bondi, Dover Heights, Rose Bay — è scossa, ma chiede una cosa semplice e non negoziabile: poter celebrare in sicurezza. È un diritto, e difenderlo è compito di tutti: istituzioni, forze dell’ordine, media, cittadini.

Cosa resta

Resta un ponte che non è più un ponte, per qualche tempo: è una ferita nella mappa di Bondi. Resta una festa che continuerà ad accendersi — con prudenza, certo — perché è questo il significato più profondo dell’Hanukkah: portare luce nelle tenebre, anche quando le tenebre sono state inflitte da mani umane. Resta una inchiesta che dovrà dire chi, come, quando, con quali complici. Resta una città che si interroga sul prezzo della libertà negli spazi aperti e su come pagarlo insieme, senza sconti e senza cedere alle semplificazioni.

Nei prossimi giorni conteranno i fatti: l’identificazione formale delle vittime, la conferma delle armi, l’analisi dell’IED, la tracciatura delle retrovie degli aggressori, l’eventuale revisione dei protocolli di sicurezza. Ma già ora c’è un punto fermo: la risposta che una democrazia dà a chi la colpisce nel suo abitare comune — spiagge, parchi, piazze — è la misura della sua forza. E quella risposta passa per la verità dei dettagli, per l’ascolto delle comunità ferite, per la fermezza nel chiamare le cose col loro nome: terrorismo antisemita.